giovedì 25 ottobre 2012

Riflessione sulle benzodiazepine

Dott. Mauro Corsaro

Le benzodiazepine sono una classe di farmaci la cui struttura chimica è composta dalla fusione di un anello benzenico e un anello diazepinico. Potenziando l'effetto del neurotrasmettitore acido gamma-aminobutirrico (GABA), svolgono azione sedativa, ipnotica, ansiolitica, e perfino anticonvulsiva, anestetica e miorilassante. Sono comunemente impiegate nei trattamenti di breve durata per stati gravi di ansia, insonnia, agitazione, convulsioni, spasmi muscolari.

Al di là delle controindicazioni che portano a sedazione eccessiva, amnesia, astenia, atassia, sonnolenza, e ridotta capcità cognitiva e psicomotoria, la loro prolungata somministrazione crea anche dipendenza, tachicardia, depressione secondaria, tremori, ipertensione. Inoltre una loro brusca interuzione può provocare convulsioni, psicosi anche acute e forme simili al delirium tremens.
Leggere un qualsiasi foglietto illustrativo sarà ancora più illuminante.
 




Detto ciò le benzodiazepine trovano ragione di esistere poiché dal punto di vista neurochimico riducono il sintomo ansioso. Tuttavia
non "toccano" e non "intaccano" minimamente la causa del sintomo, frutto di processi dinamici e cognitivi più o meno consapevoli.
 
Amo dire che l'ansiolitico per il paziente ansioso corrisponde alla disattivazione di una sirena di antifurto mentre i ladri stanno svaligiando casa. Il problema va affrontato nella psiche, con la psicoterapia. Per dimostrarlo più chiaramente mi appello al concetto di "placebo".
 
È dimostrato come una pillola chimicamente inerte, ossia nella quale non vi sia alcun principio attivo farmacologico, possa provocare un mutamento o un miglioramento dei sintomi di una malattia. Per delle patologie con una rilevante componente psicosomatica (emicrania, insonnia, gastrite) l'analisi di prove "in cieco" dimostrano un effetto placebo fino all'80% con un valore medio tra il 35 ed il 40%.
 
Il meccanismo alla base dell'effetto placebo è psicologico; il sistema nervoso, in risposta al sistema di convinzioni individuale circa le attese induce modificazioni neurovegetative, e produce endorfine, ormoni, mediatori, capaci di modificare il sintomo, perfino a livello immunitario.
 
Tali modifiche sul sistema nervoso, che avvengono attraverso un processo suggestivo, possono esistere soltanto in funzione dell'apparato psichico che processa le informazioni sia provenienti dall'interno, sia provenienti dall'esterno. In un particolare studio (Lancet 1994) furono evidenziati una serie di fattori che
rinforzano l’effetto placebo:

1) le iniezioni sono più efficaci delle compresse a parità di dosaggio e le compresse più
grosse sono più efficaci di quelle piccole;
2) la fiducia del paziente nel medico aumenta l’effetto placebo, come pure gli attestati appesi alle pareti dello studio del medico;
3) l’effetto aumenta se si spiega al paziente il supposto fittizio meccanismo d’azione del farmaco;
4) l’effetto placebo è migliore nei pazienti ansiosi e in quelli dotati di scarsa capacità critica.
 
Detto questo, è facile immaginare come il paziente ansioso devoto al suo farmaco preferito, mescoli nel suo sistema nervoso azioni di diversa natura. Non ultima quella della suggestione.
Il sistema di convinzioni agisce infatti in grande misura sul nostro sistema bio-psichico.
 
Facciamo l'esempio di un uomo che ha radicato in sé il concetto di non essere attraente. Ne è dunque convinto. L'immenso “bisogno di coerenza interna” e di "coerenza del proprio Sé" porteranno quest'uomo a trovare mille giustificazioni per continuare a dimostrarselo. In pratica porrà in essere comportamenti di “autosabotaggio” finalizzatati al mantenimento di una sua credenza interna. L'effetto è in questo caso "nocebo", il contrario dell'effetto
placebo.
 
Alla stessa maniera se il soggetto ritiene di essere ansioso e di poter andare incontro ad attacchi di panico, perdurerà nel suo atteggiamento mentale ritenendo indispensabile l'uso di benzodiazepine. Ecco che allora se da un lato pone un "placebo" nell'ESSENZA del farmaco, porrà altrettanto "nocebo" nell'ASSENZA del farmaco.

Tali opposti elementi manterranno in "equilibrio di forze" la tendenza ad assumere il farmaco, che dopotutto pur potenzia l'effetto del famoso neurotrasmettitore acido gamma-aminobutirrico
 
Per tale ormai ovvia ragione il problema dell'ansia dev'essere affrontato dal punto di vista psicologico in maggior misura.
Il trattamento farmacologico applicato secondo scienza e coscienza dev'essere concepito all'interno di un percorso più ampio ed intrapsichico. Ovviamente le autosomministrazioni all'insegna della "terapia fai da te" saranno il peggio del peggio.
 
Dott. Mauro Corsaro

1 commento:

  1. POSTILLA FRESCA

    Uno studio di popolazione prospettico appena pubblicato sul British Medical Journal ha mostrato una correlazione tra l'uso dei farmaci ansiolitici a base di benzodiazepine e il rischio di sviluppare una demenza in soggetti over 65.
    Dai risultati di questo ampio studio osservazionale a lungo termine, che ha coinvolto 1.063 persone scelte a caso tra i volontari ultrasessantacinquenni residenti nel sud-ovest della Francia, è emerso che il rischio di sviluppare una demenza durante il follow-up è stato maggiore del 60% tra coloro che avevano assunto benzodiazepine rispetto a chi non le aveva prese.
    Secondo i ricercatori, un gruppo dell'Università Bordeaux Segalen di Bordeaux , i risultati sono rimasti robusti anche dopo un controllo per i potenziali fattori di confondenti, in un'analisi combinata nel corso del follow-up e in uno studio caso-controllo.
    Ulteriori studi servirebbero – secondo gli autori –per "valutare se l'uso delle benzodiazepine nei pazienti è associato a un aumento del rischio di demenza anche al di sotto dei 65 anni e per indagare sui meccanismi che possono spiegare quest’associazione".

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