venerdì 23 settembre 2011

Rigidità, accessibilità e gestione del setting terapeutico

Dott. Mauro Corsaro

Intervento a braccio in una tavola rotonda pomeridiana (Una psicoterapia socialmente accessibile)

Pur non avendo preparato un argomento specifico per la giornata di oggi, mi sono appuntato delle riflessioni così come mi venivano in mente. Innanzitutto mi volevo agganciare a quello che il collega aveva precedentemente accennato riguardo all’attaccamento regressivo ad uno specifico approccio terapeutico. L’attaccamento regressivo, così, d’emblée, potrebbe lasciar pensare magari ad un’insicurezza del terapauta; però scomponendo le due parole, attaccamento e regressivo, forse la parola per me più inquietante, è proprio l’attaccamento. L’attaccamento indistinto ad una teoria è indice di un senso di rigidità. Non c’è dunque quella flessibilità che  io penso un terapeuta dovrebbe avere per approcciarsi ad un tipo di patologie che tanto sono flessibili, come quelle psichiatriche o quelle psichiche in senso più generale.

Quindi, se da una parte abbiamo la formazione, con i vari approcci, i vari orientamenti, dall’altra abbiamo la patologia. Ogni psicoterapeuta ha un bagaglio di tecniche che può utilizzare al momento opportuno in base alle esigenze. Cosa cambiare? Cosa tenere? Forse la cosa su cui in fondo c’è da porre l’accento, riguarda in particolare le caratteristiche personali del terapeuta, che sta in mezzo fra quello che è l’approccio teorico-terapeutico e quella che è la patologia; è il mediatore. Ovviamente colui che fa la psicoterapia è anch’egli una persona, che ha delle sue caratteristiche individuali, un background culturale. Questo aspetto è fortemente collegato al tema dell’accessibilità.

Siccome si è molto parlato di accessibilità a livello di strutture, a livello amministrativo ed anche economico, io vorrei sottolineare l’aspetto dell’accessibilità dei terapeuti. Quanto un terapeuta è accessibile? Quanto noi siamo realmente accessibili? Da cosa dipende questa accessibilità? Da tante cose: da come ci poniamo, dall’empatia, dal saper ascoltare; sono tutte caratteristiche individuali cose che rendono un terapeuta più “accessibile” rispetto ad altri.
Anche il concetto di setting terapeutico è molto importante. Il setting è un “posto” che può essere molto rigido, che da quindi una certa sicurezza sia al terapeuta, sia al paziente, che si conosce e nel quale ci si riconosce in un ruolo e in un ambiente prevedibili e strutturati. Oppure il setting può essere più flessibile; meno rigido e rassicurante, da un lato, ma forse più applicabile, poiché anche il setting va, a mio avviso, “accomodato” rispetto a quelle che sono le esigenze del paziente, e soprattutto a quello che è il contesto. In luoghi come ad esempio questo centro diurno, o in comunità terapeutiche, cosa è più importante: un buon intervento in un setting rigido da 50 minuti, o 5 interventi da 3minuti l’uno? Dipende dall’hic et nunc, dal “qui ed ora”; dal problema che il paziente porta nello specifico momento.
Anche la gestione del tempo, il timing, è fondamentale. Basti pensare alle circostanze in cui sappiamo di dover concentrare un intervento in soli pochi minuti. Se e quando possibile, dovremmo cercarle di prevederlo, ed eventualmente “correggere il tiro”, cioè accomodare l’intervento in un “dosaggio” – per esprimerci in termini farmaceutici – che non sia troppo diluito, ma più concentrato in modo da renderlo efficace il più possibile e allo stesso tempo assimilabile dal paziente. Questo timing può dipendere da tante cose: dalla struttura, dal paziente stesso e dai sui aspetti cognitivi; quanto un paziente è effettivamente in grado, soprattutto nei casi di disabilità, di mantenere l’attenzione? Di darci retta? Il tempo va logicamente costantemente accomodato.
Da parte nostra, l’optimum, sarebbe quello di porci nella maniera che sia il più possibile “accessibile”, e quindi dar modo al paziente di poter accedere a noi con facilità. Per fare questo è fondamentale essere molto attenti sia ai bisogni del paziente, sia alla modalità con cui il paziente si relaziona con noi. Esistono diversi canali di comunicazione, quello visivo, quello uditivo-verbale, quello sensoriale-cinestetico. Ognuno di noi ne ha uno che usa in modo preferenziale; e così i pazienti. Noi possiamo accorgerci del tipo di canale che un paziente utilizza maggiormente anche dal tipo di metafore che egli utilizza nel linguaggio, e più semplicemente ci accorgiamo subito del paziente che “cerca lo sguardo”, o del paziente che tenta di stabilire un contatto fisico, o di quello che utilizza il canale verbale e chiede spesso rassicurazioni. Noi terapeuti dovremmo considerare tutte queste cose e offrire un tipo di intervento che sia mediato fra ciò che occorre al paziente in senso strettamente terapeutico, e ciò che occorre per “agganciarlo”, o per mantenere una buona relazione terapeutica. Però occorre fare attenzione anche al nostro controtransfert. Quanto noi siamo infastiditi da un paziente che ci tocca continuamente o in alcuni casi ci sputa addosso? Tanto. Sicuramente. Allora possiamo avere un atteggiamento “antiterapeutico”, e dunque di chiusura, oppure un atteggiamento più aperto. Qual è la cosa opportuna? Dipende dalle caratteristiche del terapeuta? Dipende dal posto? Dal tipo di approccio? Da tante cose, ed è difficile avere una “ricetta” su come comportarci di fronte a questo tipo di problematiche.
A volte capita che sia il paziente ad essere “non accessibile”, ad avere delle resistenze, a negarci l’accesso chiudendosi ed attuando delle resistenze al colloquio. Dunque noi ci avviciniamo e chiediamo “è successo qualcosa? Hai voglia di parlarne?”; ed il paziente risponde con un secco e talvolta anaffettivo “No”. C’è dunque un problema, che è quello di agganciare il paziente, che non deve essere un “corteggiamento ossessivo” affinché il paziente ci conceda il suo tempo e noi possiamo quindi fare il nostro bell’intervento; piuttosto dovremmo rispettare i suoi tempi e i suoi “spazi”, per poter poi fare l’intervento al momento opportuno. Qual è il momento opportuno? Anche in questo caso, dipende, e dipende anche dal tipo di relazione che abbiamo via via costruito.
Avere una buona alleanza terapeutica con il paziente è ciò che veramente permette di poter attuare le tecniche utili al paziente in rispetto della personalità del terapeuta, e soprattutto permette al paziente stesso di “aprirsi”. Spesso ci siamo trovati in difficoltà di fronte a pazienti con forti resistenze o, ad esempio, di fronte a pazienti deliranti. Agganciare un paziente delirante vuol dire entrare nel delirio facendo attenzione a non venirne travolti, per poi cercare di riorganizzare il pensiero. Per far ciò l’alleanza terapeutica è fondamentale. Ma quando l’alleanza terapeutica viene meno, di chi è la colpa? Del Paziente? Del terapeuta? Di entrambi? Io penso che sia, fondamentalmente, un “difetto della comunicazione” e penso che se qualcuno può porvi rimedio non è il paziente – che deriva dal latino patire, e non dal concetto di pazienza -  bensì lo sforzo dovrebbe essere quello del terapeuta. È comunque importante tenere sempre a mente il concetto di “gestione del tempo” che permette una migliore “gestione del setting”, tenendo presente quanto il setting in certi contesti e strutture viene a “mancare” completamente.
Dott. Mauro Corsaro  - 20 Novembre 2009

per altre info:
corsaromauro@gmail.com


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